L’articolo 7, comma 2 , del decreto legge n. 4 del 2019 convertito dalla legge n. 26/2019 dispone che l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’articolo 3, comma 8, ultimo periodo, 9 e 11, (15 giorni) è punita con la reclusione.
Dunque chi lavora a nero, non comunicando all’Inps le variazioni del Reddito, commette un vero e proprio reato che può essere punito con un periodo di reclusione che va da uno a tre anni.
La previsione normativa, oggi, trova piena conferma con la sentenza n.25306/2022 della Corte di Cassazione, che ha accertato la violazione dell’art. 7, comma 2 del decreto n. 4/2019 commessa da chi omette i redditi percepiti dall’attività di lavoro in nero.
La stessa Corte, inoltre, non ha accolto la giustificazione che l’attività sarebbe stata svolta gratuitamente e compensata solo con regalie saltuarie. Anche tali “regalie”, infatti, vanno qualificate come compensi, e dunque vanno obbligatoriamente comunicati all’Inps.
Nel caso di specie il lavoratore in nero è stato condannato in primo grado alla pena di un anno e otto mesi di reclusione, poi ridotta ad un anno e un mese.
La pronuncia della Corte statuisce un punto fermo, rispetto ad una questione estremamente complessa e delicata. Coloro che accettano di lavorare in nero per non perdere il beneficio del reddito di cittadinanza, rischiano senza alcun dubbio pene molto severe. A tal proposito ricordiamo che il divieto di lavorare a nero vale per tutti i componenti del nucleo familiare che risulta percettore del reddito di cittadinanza.